Perchè da una statistica è nata una discussione senza fine
Come molti ricorderanno, nell’antica Roma i militari e i funzionari pubblici erano pagati con una quantità di sale, che poi venne sostituita con un importo monetario che ne conservò il nome. La parola salario, divenne l’indennità per comprarsi il sale, e poi fu adottata per definire il concetto generico di paga. La radice della parola “salario” è rimasta in molte lingue europee.
Benché abbastanza abili con le parole, i discendenti dell’Impero di Roma, invece, non se la cavano benissimo con i numeri, e quando arriva una statistica che descrive una situazione, soprattutto se paragona l’Italia al resto dell’Europa o del mondo, si scatena un putiferio. In queste settimane, la statistica sul non incremento dei salari italiani rispetto al resto d’Europa ha dato vita a un dibattito che, da “mancato incremento” è diventato “i salari più bassi d’Europa”, spostandosi poi su elucubrazioni relative alla produttività, al PIL, e planando sul salario minimo garantito del quale si è discusso alla Commissione Europea.
Ma cosa ha detto esattamente la statistica? Ha detto che in Italia non sono aumentati i salari, anzi, sono leggermente diminuiti. Però, ha fotografato solo gli aumenti, non gli stipendi medi; non ha detto, ad esempio, che gli incrementi maggiori sono stati, tra il 2008 e il 2017, in Paesi che partivano da stipendi medi molto più bassi della media europea. La statistica si trova qui: Global Wage Report 2018/19 – What lies behind gender pay gaps (ilo.org)
In questo elenco, i Paesi che hanno avuto gli incrementi maggiori, ad esclusione della Svezia che comunque è al sesto posto, sono Repubbliche ex-sovietiche o ex-yugoslave, che sono entrate in Europa e si sono avvicinate agli standard europei.
Una buona interpretazione dello studio sugli incrementi degli stipendi, si trova qui: Tra salari e produttività ad andarci di mezzo è il nostro futuro – HuffPost Italia (huffingtonpost.it)
Attenzione però, un elemento da capire è come siano stati ottenuti i dati della statistica. Come si calcola lo stipendio medio? Si prende il salario orario minimo? Oppure quello mensile o addirittura annuale? Se cambiamo il punto di vista temporale, infatti, le cose sono molto diverse. Se poi vogliamo parametrare la paga all’orario di lavoro, lo scenario cambia ancora. Se addirittura volessimo valutare anche il peso degli ammortizzatori sociali, addio agli standard europei.
Vediamo nel dettaglio. Lo stipendio medio annuo non è lo stipendio mensile moltiplicato per dodici, almeno, non Italia. Infatti, in Italia la tredicesima mensilità è obbligatoria, diversamente da molti altri paesi europei nei quali non esiste affatto, oppure come ad esempio in Francia e Germania, è consuetudine ma non è un obbligo contrattuale. Però, i contratti collettivi italiani del terziario (che occupa il 70% della popolazione lavorativa italiana) prevedono anche la quattordicesima mensilità, producendo in totale un incremento dello stipendio annuo di oltre il 16% rispetto al semplice calcolo mensile. Non esistono statistiche relative alla quindicesima mensilità, prevista per alcuni contratti, perché viene erogata solo in Italia.
L’elenco dei Paesi che prevedono le mensilità aggiuntive si trova qui: Thirteenth salary – Wikipedia
E’ un dato inconfutabile che gli stipendi netti, calcolati senza le mensilità aggiuntive, siano piuttosto bassi in Italia, ma anche in questo caso, se vogliamo rapportarci al resto d’Europa, dobbiamo capire la differenza tra stipendi netti e lordi, e quale potere d’acquisto offrano gli stipendi europei nei vari paesi.
La statistica relativa al potere d’acquisto si trova qui: Current Cost of Living Plus Rent Index on a Map (numbeo.com)
Come si vede dalla cartina, l’Italia è esattamente nella media, mentre paesi con stipendi molto più alti (come ad esempio la Svizzera) hanno un costo della vita altissimo.
Torniamo agli stipendi senza raffronto con il costo della vita. La statistica degli stipendi medi, netti e lordi, si trova qui: Average Salary In Europe (wcifly.com)
Da questo elenco si vede che l’Italia, come stipendio medio lordo, figura al 14° posto su 44 nazioni elencate (è un concetto di Europa molto allargato, che purtroppo non trova riscontro nella cronaca di questi ultimi mesi) Quindi, l’Italia si trova in una posizione un po’ più alta rispetto alla semplice media aritmetica. Come stipendio medio netto, l’Italia perde due posizioni e si ritrova al 16° posto. Infatti, se rapportata all’imposizione fiscale, l’Italia balza all’ 8° posto per percentuale prelevata dal fisco.
Ma cosa pagano i lavoratori italiani, con le loro tasse? Oltre a: sanità, istruzione, difesa… gli Italiani pagano in media più tempo a disposizione degli altri Europei, e una rete di ammortizzatori sociali molto più strutturata che altrove.
Iniziamo dal tempo. Siamo la nazione con più pause di tutti, ma anche in questo caso, il calcolo non è immediato.
La statistica dei riposi pagati si trova qui: List of minimum annual leave by country – Wikipedia
In questo elenco l’Italia figura nella media, con 32 giorni di riposo pagato (ferie e giornate di festività) Hanno più giorni a disposizione solo la Francia e i paesi scandinavi. Però, nel calcolo non figura la giornata relativa alla festività patronale, che è diversa per ogni comune, e quindi non risulta festività nazionale e nemmeno ferie, ma che porta i giorni a 33. Nel calcolo dei riposi pagati non figurano nemmeno i permessi (ma sono ben specificati nel dettaglio relativo alla nazione) che aggiungono 104 ore di assenza pagate. Il totale delle assenze pagate arriva quindi a 46 giorni, più dei paesi scandinavi che si fermano intorno ai 35 giorni di media.
In Italia, esistono tutele anche per: maternità, congedi parentali, assistenza ai familiari con disabilità, giorni di malattia… che sono un po’ maggiori della media europea. Ad esempio, di seguito, trovate la statistica relativa ai congedi di maternità: Maternity Leave by Country 2022 (worldpopulationreview.com)
L’Italia prevede un congedo di maternità minimo di 21 settimane (la Germania ne prevede 14, ad esempio) anche se ammette solo una settimana di congedo di paternità.
Avere molto tempo retribuito ha permesso all’Italia di guadagnare un primato che è passato sotto silenzio, purtroppo. Chissà perché, quando facciamo qualcosa meglio degli altri, non ne approfittiamo mai per essere un pochino soddisfatti. Il primato che abbiamo ottenuto è quello della nazione con il miglior bilanciamento nel rapporto tra vita e lavoro. La statistica si trova qui: • Chart: The Countries With the Best Work-Life Balance | Statista
C’è un altro primato italiano del quale dovremmo essere abbastanza orgogliosi, e riguarda il trattamento che ricevono gli Italiani al termine della loro vita professionale.
Una cosa, ad esempio, che lascia sbalorditi i legislatori d’oltreoceano è la presenza degli ammortizzatori sociali. Un interessante articolo sulle indennità da licenziamento si trova qui: Understanding Severance Pay Requirements in Western Europe (claimsattorney.com)
Però, mentre le indennità per licenziamento ci sono in tutta Europa, non si trovano statistiche relative al TFR; infatti, la cara vecchia liquidazione che noi diamo per scontata, all’estero non esiste. In Germania esiste una specie di indennità di fine lavoro, che però non è automatica come nel caso del TFR italiano. Se si considera che il TFR è calcolato in circa un mese di stipendio per ogni anno lavorato, ecco che il lordo annuale degli italiani è incrementato di un’ulteriore mensilità, rimandata al momento del pensionamento.
I pensionati italiani, peraltro, sono trattati meglio dei “colleghi” europei, in quanto percepiscono quasi l’ammontare intero dello stipendio, mentre nel resto d’Europa l’assegno mensile della pensione è parecchio alleggerito. I dati si trovano qui: Comparison of pensions across the European Union by country (intotheminds.com) e mostrano che i pensionati italiani percepiscono un assegno con l’equivalente del 91,8% dell’ultimo stipendio, mentre la media europea è pari al 64,7%.
Inoltre, l’Italia è l’unico paese europeo ad aver varato il reddito di cittadinanza che, pur tra mille polemiche, è considerato da molte voci politiche uno strumento salvavita per i meno abbienti. Un’analisi super partes è stata proposta dal Guardian in questo articolo: Italy rolls out ‘citizens’ income’ for the poor amid criticisms | Italy | The Guardian
Viste tutte le analisi appena elencate, si potrebbe pensare che, secondo me, i lavoratori italiani siano trattati troppo bene. Niente affatto, ritengo piuttosto che i loro omologhi europei dovrebbero essere trattati meglio. Ritengo soprattutto, che l’Europa, se vuole varare un salario orario minimo comune a tutti, dovrebbe anche armonizzare le festività e il trattamento sociale e fiscale.
Soprattutto, l’Europa dovrebbe vigilare che tutti i lavoratori abbiano tutele sui loro diritti, come in Italia o nei paesi del Nord Europa. Inaspettatamente, infatti, l’Italia vanta un altro primato: si assesta ai primi posti in Europa per rispetto dei diritti dei lavoratori, mentre paesi che consideriamo molto più virtuosi di noi violano i diritti dei lavoratori, ripetutamente o addirittura sistematicamente. L’analisi si trova qui: 2022 Worker’s Rights Index: Best & Worst Countries – SmallBusinessPrices.co.uk
Ora, volendo rapportare il trattamento dei lavoratori italiani alla produttività, da molti indicata come la causa che impedisce la crescita degli stipendi, siamo proprio sicuri che l’Italia sia poco produttiva? Anche per questo valore, dobbiamo capire quale metro di misura si debba usare.
In generale, per valutare la produttività di una nazione si usa il PIL, ma forse non tutti sanno che il prodotto interno lordo misura esattamente quanto dice l’acronimo, la produzione lorda. Più esattamente, il PIL misura solo quanto è stato prodotto ex-novo, detratte le materie prime e le importazioni; non è una misura della salute dell’economia nazionale nel suo complesso, e nemmeno una stima del capitale circolante, e meno ancora della ricchezza in generale. Ad esempio, non rientra nel PIL la maggior parte delle transazioni nel mercato immobiliare, in quanto gli edifici comprati e venduti erano per lo più già esistenti; così come non rientra la produzione di materie prime destinate all’industria interna, come gli acciai o le materie plastiche per l’industria automobilistica. Ma, se andiamo a vedere la bilancia delle importazioni ed esportazioni, l’Italia si colloca al terzo posto in Europa per esportazioni, alle spalle di Germania e Francia. I dati, forniti dal Ministero dello Sviluppo Economico sono qui: https://www.mise.gov.it/images/stories/commercio_internazionale/osservatorio_commercio_internazionale/statistiche_import_export/paesi_export_import_mondo.pdf
E’ interessante notare che l’Italia esporta un volume pari al 2,8% dei mercati globali e ne importa il 2,6%, mantenendo in positivo la bilancia dei pagamenti esteri; mentre la Francia, che esporta più di noi con un 3% importa però il 3,4% acquistando dall’estero più di quanto non faccia uscire dai propri confini.
Se comunque vogliamo vedere il temutissimo PIL, nel 2019 (l’ultimo anno che possiamo definire normale, senza pandemie, guerre, e altre fonti di disagio) l’Italia si colloca sempre al terzo posto nella zona Euro. Un quadro ben spiegato si trova qui: https://it.wikipedia.org/wiki/Stati_europei_per_PIL
Anche in questo caso è interessante fare un paio di osservazioni: in Germania la popolazione lavorativa è composta da circa 48 milioni di unità, mentre in Italia sono solo circa 23 milioni; rapportando il PIL nazionale a una suddivisione percentuale pro-capite, troviamo che gli Italiani contribuiscono individualmente per il 9%, mentre i colleghi tedeschi, notoriamente riconosciuti per capacità produttiva, si fermano all’8,47%. Perciò, i lavoratori italiani sono tutt’altro che poco produttivi.
Ma quindi, se gli Italiani hanno un ottimo livello di produttività e di export, e hanno condizioni di lavoro molto più invidiabili di gran parte del mondo, perché siamo sempre considerati il fanalino di coda dei Paesi industrializzati, sbeffeggiati e derisi soprattutto da noi stessi?
Perché è inutile negare che la faccia lucida e brillante di questa medaglia nasconda un altro lato molto più opaco
Il primo dato che deve far riflettere, e molto, lo abbiamo appena visto: in Italia ci sono circa 23 milioni di lavoratori, contro una popolazione di circa 60 milioni. Siamo la nazione nel G7 con il rapporto più basso tra lavoratori e popolazione globale; in Italia lavora il 26% della popolazione, in Germania il 52%, in Francia il 46%, in Giappone il 52%. Hanno una forza lavoro minore di noi solo i Canadesi, con circa 20 milioni di lavoratori, ma dato che sono in 38 milioni anche loro vantano il 52% di popolazione attiva; in percentuale, sono il doppio di noi. Attenzione a non confrontare i dati appena visti con il “tasso di disoccupazione”, perché in Italia il termine “disoccupato” intende chi sia senza lavoro ma sia alla ricerca di un’occupazione. Gli studenti, i lavoratori scoraggiati o chi non ha mai cercato lavoro non rientrano nel calcolo della disoccupazione.
I dati sulla popolazione si trovano qui: Population by Country (2022) – Worldometer (worldometers.info)
E’ vero che l’Italia vanta un’aspettativa di vita molto lunga, ed è vero che abbiamo una popolazione di pensionati molto numerosa, ma è innegabile che abbiamo un problema di occupazione sic et simpliciter. Una delle cause potrebbe essere imputabile alla formazione; siamo la nazione con meno laureati dell’Unione Europea, e come se non bastasse, la nostra scuola dell’obbligo produce il maggior numero di analfabeti funzionali, con un tristissimo 28% della popolazione adulta che, pur sapendo leggere tecnicamente, non è in grado di comprendere e sintetizzare un testo.
I dati si trovano qui: Laureati, Italia agli ultimi posti d’Europa (come sempre). L’anomalia del Lazio – Info Data (ilsole24ore.com)
E’ altrettanto innegabile che l’Italia abbia qualche problema con la fiscalità e la corruzione. Attenzione, prima di partire lancia in resta contro gli imprenditori e gli artigiani, vediamo anche in questo caso qualche dato preciso. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha stimato in un 4,47% l’evasione rispetto al PIL dichiarato nel 2019, in netta diminuzione rispetto al 6,20% nel 2002 grazie alle misure adottate per il contrasto all’evasione fiscale. Nel Documento di Economia e Finanza (Aggiornamento del 2020) lo stesso Ministero distingue tra: l’evasione, gli errori di dichiarazione, e il sommerso che deriva da attività illecite. Perciò se l’evasione fiscale (i pagamenti non fatturati, tanto per intenderci) sono una percentuale a una cifra, gli introiti del malaffare sono tutt’altra materia, che non solo deriva da attività criminose, ma ne perpetua il finanziamento. La criminalità organizzata è una zavorra che impedisce a tutti i lavoratori italiani, dipendenti o autonomi, di godersi il frutto del loro lavoro e delle loro tasse, e la cui entità è quasi impossibile da stimare.
Il documento integrale si trova qui: Allegato alla NADEF 2020 (finanze.gov.it)
Un altro aspetto relativo al lavoro nero è lo sfruttamento di operai, soprattutto in settori nei quali il caporalato la fa da padrone, dove all’evasione fiscale e contributiva si aggiunge la mancanza di sicurezza. Gli incidenti sul lavoro sono un problema trasversale all’industria e all’artigianato italiani, e per quanto si insista sulla necessità di fare formazione e prevenzione, restiamo uno dei paesi europei con il maggior numero di incidenti gravi e fatali.
Il dato completo si trova qui: https://www.today.it/europa/lavoro/morti-lavoro-europa-italia.html
Anche gli incidenti, al di là dell’aspetto umano che rimarrà perennemente il più grave, sono un fattore che aumenta i costi del lavoro, dal momento che l’Inail è sempre a carico delle imprese… quelle in regola con i contributi, che ovviamente finiscono per pagare anche per conto delle aziende inadempienti o fantasma.
L’Italia è una nazione straordinaria, nel bene e nel male; sembra sempre incapace di liberarsi da una sorta di contrappasso che ci vede come formidabili campioni dell’ingegno umano, e contemporaneamente privi di senso civico in molti (troppi) ambiti. Perennemente litigiosi e senza coesione, al punto che una statistica genera un dibattito infinito, fatto di letture strumentali e mai approfondite.
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